La classica del Corno Piccolo: salita per la Danesi e discesa per la normale.

“Il tempo si è fermato sul Passo del Cannone”... quando una settimana fa è stato il punto del nostro ritornare indietro. Ed una settimana è durata la preparazione al Corno Piccolo. Nella testa quella parete piena di verticalità dove difficile (per me) era capire le vie di accesso. Nella testa le ansie di riuscita e di dovermi ritrovare e confrontare con la roccia, con le esposizioni, con il vuoto. Ma una settimana anche piena di vissuta consapevolezza di volercela fare, e di doverlo fare in sicura scioltezza. Volevo questa montagna, volevo trovarmi faccia a faccia con l’ambiente a me meno amato e adatto. La via normale bistrattata da Luca era il progeto iniziale ma poi è cresciuta la voglia di districarmi con le mie paure. La Danesi e la sua linea diritta, piena di ferrate ed esposizioni. Era il palcoscenico ideale per capire e capirmi. Capire se potevo avere un seguito in montagna oltra la camminata e capirmi se avevo la forza di mettere da parte l’ansia. Sapevo che potevo farcela, che avevo affrontato con serenità situazioni del genere ma sapevo che ultimamente sulle rocce esposte mi ero ritratto, avevo perso il divertimento e la voglia di esserci. E questo progetto, questa montagna, quella croce, mancata la settimana prima e per questo più voluta e consapevole era diventata il mio confine. O di qua e allora avanti con le lunghe sgroppate o di la dove ci si poteva cimentare anche con arditezze più complesse. Una giornata che in ballo non aveva solo lo sbiffo sulla classifica del club 2000, ma la mia rivincita e la mia presa di coscienza di esistere ancora e di avere ancora le palle da mettere oltre il muro. E così è nata e proseguita. La proposta, accettata da Giorgio, della Danesi confortata dai kit da ferrata è stato il tarlo dei giorni precedenti. Le foto di Luca del sabato precedente eccitavano e mettevano ansia. Avrei affrontato tutti i passaggi infilandoli uno dopo l’altro, controllando le ansie e i movimenti, studiando le mosse con determinazione e concentrazione. Nella mia testa avevo già salito e risalito quella montagna. Ora rimaneva farlo davvero e lo dovevo fare bene! Le quattro e trenta, anticipate come al solito, l’ora di incontro; il Torrino sud, il luogo di incontro. Filare veloci in autostrada, un caffè all’area di servizio e tante chiacchiere; di noi e della giornata che avevamo davanti. In un attimo eravamo già sui tornanti per Campo Imperatore che stava già lentamente albeggiando. Le seghe delle creste dal Brancastello al Camicia si slanciavano spavalde nell’ancora tenue azzurro, lucentissimo cielo e venato di rosa, di quest’alba insorgente. E poi tutto ciò che era lentezza si è fatto veloce. A Campo Imperatore, durante i preparativi il giorno era ormai fatto, pieno di colori pastello e i primi passi in un clima battuto da un fresco vento sono stati propiziati dai primi caldi raggi del sole che spuntava dietro Vado di Corno. Era il modo migliore per la montagna di augurare una buona giornata. Poche foto in questo tratto, sarebbero state le stesse della settimana precedente, in fondo per noi la vera giornata cominciava al passo del Cannone, e poche parole; eravamo concentrati sulle nostre ansie. Sapevamo l’importanza e la posta in palio che la giornata ci stava riservando. Stesso percorso, traverso sotto il Portella, Sella Del Monte Aquila, Sella del Brecciao che raggiungiamo in tempo record alle 7,45; stesse immagini della settimana precedente e nonostante questo tante foto a catturare quelle linee straconosciute e per questo sempre più belle. Un panino e via fino a trovarci di nuovo al cospetto del nostro totem. Non indugiamo sul pianoro anche se ad onor del vero da stupirsi ce ne era ben donde. La parete del Corno Grande o meglio tutte le sue rughe erano bianche di un qualcosa che sembrava neve. Impossibile ci siamo detti eppure era così. Raggiungiamo il primo tratto di sentiero ricoperto di giaccio bianchissimo, crostoso e duro. Era neve ma non poteva essere; non ci potevano già essere state le condizioni adatte. Era freddino ma non tanto da giustificare una nevicata così precoce eppure anche al tatto sembrava un sottile strato di neve congelata. Solo più tardi veniamo a sapere che in zona la sera precedente si era abbattuto un violentissimo temporale che aveva sversato furiose grandinate su entrambi i corni. Una sorpresa che ben presto si rivelerà un’ insidia nelle strette cengie del Passo del Cannone. Prendiamo a salire il sentiero cercando appigli nelle rocce sporgenti per evitare il ghiaccio; la temperatura fresca ci fa filare veloci e nemmeno ce ne accorgiamo siamo già ad affrontare le prime difficoltà del passo; quelle che ci avevano bloccato solo una settimana prima. Per noi iniziava qui la nostra nuova giornata, la nostra personale sfida con noi stessi. Superiamo guardinghi per la presenza dello strato di gelo le prime cengie ed i primi saltini; ma veloci e sicuri. Siamo oltre il passo e si apre la vista sul rifugio Franchetti;ci affidiamo al primo cavo di acciaio per superare il levigato canalino reso ancora più viscido dall’umidità del ghiaccio che si scioglieva ai primi raggi del sole. Siamo sotto la parete. Riprendiamo il sentiero, prima una larga cengia poi uno sfasciume imperioso; incontriamo gente che sale, i soliti saluti ma eravamo distratti. Le guglie del Corno Piccolo erano sempre più vicine e andavano a rinvigorire silenziosamente le nostre ansie. Si scende tra un mare di pietrisco fino ad un lungo sentiero scavato che conduce direttamente alla Sella dei Due Corni. Lo spettacolo è imponente ma familiare. Per tutta la settimana la foto di copertina della guida dei 2000 dell’Appennino, sistemata ad hoc sul comodino, la foto precisa che era stata scattata da quella posizione mi portava, tutte le sere, un attimo prima di spegnere la luce, in quel punto ed in quel momento dove mi trovavo. Era una sorta di deja vou razionale. Ero finalmente dove volevo essere da moltissimo tempo. Una tale determinazione mi ha impedito di godere del panorama che comunque ho visto; a destra della sella e quindi a nord est la parete verticale del Corno Piccolo che troneggia sul Franchetti e sullo sfondo il mare. In mezzo le montagne sorelle e la quieta campagna teramana. A nord la profonda Valle dei Ginepri che induce lo sguardo alla strettissima Val Maone ed alla colossale parete dell’Intermesoli sovrastata dall’irregolare sagoma del Lago di Campotosto. I pensieri erano rivolti alla salita, il cuore si sentiva a casa, in mezzo ad un tripudio di valli e vette. Sostiamo sotto il campanile Livia stupefatti da tanta verticalità e consci che qualche essere umano ci sale. Ma sarà vero?? Siamo consapevoli però che il nostro momento è arrivato; prendiamo a scendere nel ghiaione che conduce all’attacco della Danesi. Scendiamo circa cento metri di dislivello e sulla destra, evidenziato da targa e segnali c’è l’imbocco della via di salita. Un ripido agevole canale fatto di rocce poste a mo di scale e ci troviamo all’interno di una valle sinuosa, in salita, con il sentiero che prima costeggia le pareti verticali di destra e poi con accentuati tornanti prende quota. Dopo aver recuperato il dislivello perso nei confronti della Sella dei Due Corni ci troviamo nel cuore della montagna; i primi passaggi che obbligano l’utilizzo di mani e piedi iniziano a susseguirsi velocemente; ad ognuno si sale di quota. Qualche affaccio profondo ma ancora niente di espostissimo; procediamo sicuri, troppo spavaldi tanto che cominciamo a pensare che Luca avesse ragione nel definire la Danesi una facile via di salita. Il percorso è ben contraddistinto da bolli giallo-rossi; è impossibile perdersi. Come del resto sarebbe impossibile intuire la via di salita senza la loro presenza. Saliamo e scendiamo un sentiero che si labirinteggia all’interno delle tante rocce e guglie; sempree più in alto tanto che i panorami sulla valle sottostante si alzano di minuto in minuto. Ormai i confini del mondo giungono al pizzo Cefalone, la Val Maone si insinua nella gola tra il Corno Grande e l’Intermesoli. Le foto scattano a ripetizione; immagino già la grande soddisfazione che mi regaleranno a casa le mie panoramiche. Non sentiamo la stanchezza, continuiamo a salire senza una sosta più lunga di qualche secondo; siamo saliti così tanto che cominciamo a chiederci dove abbiamo inizio le scalette e famose ferrate di questa via. C’erano , c’erano, erano poco sopra, nascoste dalle tortuosità della linea di salita a dai tanti pinnacoli che rimanevano da aggirare. E lì, alla fine del sentiero calpestabile, a circa centocinquanta metri dalla vetta, sopra un passaggino leggermente esposto faceva bella mostra di se, a destra, il primo aggancio del cavo di acciaio. Alzo lo sguardo e la verticalità su cui si appoggia la prima scala mi soffoca. Costringo la digestione della prima amara impressione e sono già assicurato al cavo; non sto pensando, so che se lo facessi il cassettone col suo contenuto di bianche lenzuola si spalancerebbe. Il primo piolo ed il gioco è fatto, al secondo mi sento già più sicuro, al terzo provo una leggerezza insperata e al quarto percepisco un leggero sorriso che mi fa ritrovare tutte le sicurezze di un tempo. Salgo fin troppo spavaldo, mi stupisco, solo un leggero impaccio con lo sgancio e il riaggancio delle sicure; un primo tratto e mi fermo per fotografare Giorgio alle prese con i primi pioli della scala, sale tranquillo. Ci siamo, mi dico. Supero appeso ai cavi un tratto levigato di una decina di metri e attacco il secondo tratto di scala, più lungo, quello che termina con i due pioli che obbligano un passaggio aereo e che ho sognato durante le mie notti di attesa. Ma anche questo lenzuolo viene piegato e strirato ancor prima che un alito di dubbio lo provi a sollevare. Comincio a pensare che le mie ansie siano solo una mia costruzione mentale. Mi assicuro legato su di un masso e da ottima posizione riprendo Giorgio mentre esce dalla scala nel tratto aereo dei due pioli piantati nella roccia. Ci riposiamo per stemperare la tensione comunque presente. Saliamo, saliamo ancora, ora è facile ora meno e arriviamo al cospetto del fantomatico passaggio sotto il masso erratico. Un attimo prima un saltino ci impegna leggermente ma ci preoccupa per il ritorno. Nel foro, anche se con qualche problema di appigli poco facili passiamo divertiti passandoci gli zaini a mano. Siamo oltre, quasi sopra ormai, quasi convinti di avercela fatta e già concentrati a ripercorrere le difficoltà per la via del ritorno. Giorgio prende a tirare la salita. Esce su un balcone quasi sospeso nel vuoto; e si spaventa, troppo, quasi un attacco di panico. Inizia ad imprecare e dice che la salita è finita. Non capisco. Mi arrabbio un po’ richiamandolo alla calma e salgo velocemente per capire quale diavolo di difficoltà avesse incontrato. Ma era solo un scherzo da stress; aveva localizzato la vetta a destra del percorso, dove aveva trovato solo verticalità assoluta e vuoto. E’ bastato farlo calmare e fargli notare che il sentiero continuava, si esposto anche se protetto un minimo, ma sulla nostra sinistra. Prendo a guidare io come avevo fatto fino a quel momento. Ho intuito che Giorgio si trovava al limite della tensione e aveva bisogno della sicurezza del passaggio certo. Mi inoltro seguendo avido i bolli; un intricato sistema di rocce erranti produceva uno scomposto avanzare tra enormi massi rotondeggianti fino al passaggio che definirei clou della salita. Il sentiero di nuovo calpestabile terminava su una pietra obliqua di 4 metri di attraversamento. Una pietra liscia, con una sola cengietta di quattro o cinque centimetri per appoggiare il primo scarpone a circa un metro dal sentiero.Per fortuna in alto due rientranze nella roccia, quasi fossero acquasantiere assicuravano la presa a giusta distanza. Detta così sembra accademia. Peccato che la roccia, levigata, obliqua, termimava tre metri più sotto in un salto nel vuoto di qualche centinaio di metri. Insomma, l’attimo del dubbio ci è arrivato. Il momento di riflessione si è imposto. Tutto è passato nella mia mente mentre Giorgio imprecava verso la troppa leggera pubblicità per questa via di salita. Nella mia testa velocemente sono balenate tutte le ipotesi; tornare indietro era inaudito, la vetta era a pochi minuti, tutti, scalatori attrezzati e turisti della domenica erano passati di li e da ultimo noi eravamo lì per salire quella montagna. Ed ho ritrovato la lucidità. Molte volte la razionalità è fondamentale dove non arriva il cuore. La mano sinistra stretta nel primo incavo dava sicurezza, il piede sinistro sulla sottile cengia era solido; uno sguardo alla distanza dalla seconda “acquasantiera”, il punto dove appoggiare il piede destro e di slancio dovevo superare il passaggio,. Non so se l’ho pensato e l’ho eseguito o se è stato un tutt’uno. Di fatto mi sono trovato infilato nella stretta fessura che mi metteva in sicurezza oltre quel delicato passaggio. Rincuoro Giorgio e mi sposto per lasciargli spazio di manova; ha i tratti del viso tesi ma supera il momento. Siamo all’interno di due massi appoggiati, abbarbicati su una pendenza consistente ma in assoluta sicurezza mentre Giorgio si faceva prendere dallo stress subito e dava sfogo alle proprie tensioni. Ci caviamo velocemente anche da li per tranquillizzare il mio compagno e poco dopo siamo fuori, ormai al cospetto della vetta. Passaggi di cresta non espposti fino all’ultimo salto della spaccatura. Una spaccatura di una settantina di centimetri da saltare di slancio per evitare un volo all’interno di una decina di metri, Qui Giorgio con le su lunghe leve si toglie presto d’impaccio; io indugio, studio gli appoggi come se improvvisamente fossi diventato paraplegico e mi butto in velocità. Siamo di la. La vetta è sopra di noi una trentina di metri; un ultimo cavo per superare un tratto liscio di una quindicina di metro e camminado alle 11,35 siamo in vetta. Siamo i primi della giornata. Tesi, ancora increduli di avercela fatta nonostante tutto così facilmente. I nostri muscoli si distendono, prendiamo a guardarci attorno. Ma cominciamo subito a parlare di ritorno, segno che è dentro di noi, segno che non siamo completamente tranquilli. Tra una foto e l’altra ipotizzo la discesa per la normale per rendere ancora più interessante il giro e addirittura la discesa fino alla val Maone per risalire il Portella dal rifugio Garibaldi, ma Giorgio si oppone, preferisce le difficoltà conosciute a quelle nuove anche se sulla “normale”. Poi arriva un solitario scalatore; si muove con passi agili e sicuri . Facciamo conoscenza e scopriamo trattarsi di una guida alpina, Gino Perini della Mountains Guides di Abruzzo; parliamo del più e del meno, di montagna naturalmente e Giorgio riesce a strappargli l’impegno di guidarci sul Dente del Lupo. Lo guardo ammutolito, sorpreso, basito si dice a Roma. Pochi minuti prima lo avevo sentito imprecare verso le esposizioni da verticalità, lo avevo sentito programmare solo sentieri escursionistici per il futuro e già era lì a sognare la salita sul Dente del Lupo. Ho preferito godermi il panorama dalla cima di quella piramide. Il Calderone ormai privo di neve ma soprattutto la grande ed imponente cresta di tutte le vette del Corno Grande era li davanti a fare bello sfoggio, spavaldo direi, di se. In fondo, a sud, tra le immancabili colonne di condensa che risalivano il paretone del Camicia spuntava affilato come un canino il famigerato Dente del Lupo mentre a nord la presenza dell’enorme Intermesoli stancava quasi di tanta esagerata presenza. Dopo una mezz’oretta di chiacchiere, confortati dalla guida sulla facilità della via “normale” con Giorgio decidiamo di tornare per questo sentiero. Attraversiamo tutta la spalla di vetta verso nord fino all’imbocco della via contrassegnato da un ometto in cresta proprio mentre le prime nubi cominciano a popolare la vetta e a farla sparire dalla vista del mondo. Una spaccatura in pendenza apre la discesa per un sentiero agile. Un primo facile passaggio sotto un masso errante appoggiato in bilico apre le ostilità; il resto è davvero una passeggiata a tratti leggermente esposta ma sempre sicura. Solo due salti di 4 e 6 metri da compiere utilizzando mani e piedi con una esposizione da incutere rispetto e non solo ma con appigli frequenti e sicuri tolgono la leggerezza alla discesa. Quasi in fondo una divertente camino molto appoggiato a complicare la vita ed il resto è solo salita affannosa fino alla Sella dei Due Corni, che non raggiungiamo perché decidiamo di tagliare sotto per un poco evidente sentiero. E poi ancora salita fino al passo del Cannone, noiosa ed interminabile sul pitrisco instabile e scivoloso; perdiamo il sentiero e lo riprendiamo puntando il bollo in alto molto evidente fin dalle prime mosse. Il tratto col cavo ed il passo col buco del Cannone questa volta ben in evidenza. Passiamo le strette cengie del passo mentre le nuvole si fanno dense e scure ma ormai non ce ne frega più nulla. Stiamo per ritornare sul sentiero che ci condurrà a casa. La nostra personale battaglia è vinta. Siamo leggeri ora, ed il passo lo testimonia. Non siamo nemmeno stanchi e divoriamo il sentiero. In breve siamo su Brecciaio e poi senza sosta sul traverso della Valle Pericoli. Filiamo verso casa e verso il riposo, verso l’appuntamento per il recupero di uno sprovveduto Luca ed ancora più incauto Federico. I due degni compari di tanta foga montanara hanno aggredito il Brancastello in mattinata e da li uno ad uno il san Gabriele e quasi tutto il Centenario fino alla Cimetta accorgendosi solo sull’Infornace o giù di li che entrambi avevano parcheggiato la macchina nello stesso posto, a Vado di Corno. Una telefonata di Luca mentre ero ancora sotto il Corno Piccolo ha preventivamente gli assicurato il recupero ed evitato un penoso ritorno di una ventina di chilometri su nastro asfaltato. Un momento da ridere di certo ma anche molto significativo. La fame a volte fa compiere delle abbuffate difficili da digerire. Per fortuna questa volta in zona c’erano amici pronti al soccorso con il digestivo nello zaino. Io, in questa entusiasmante e lunga giornata, la mia personalissima vittoria con le mie torve fantasie sento di averla vinta, ma sento che si tratta di una battagila vinta, non di una guerra. Quella, avrà nuovi episodi che si appoggeranno però sulla consapevolezza acquisita oggi e già, per me, questo, è un risultato grandioso. Spero solo che la lunga stagione invernale non mi faccia dimenticare di essere stato li, proprio li, dove per tanto tempo ho temuto di dover essere.